Che cos’è lo Champagne? Un vino spumante metodo classico (o, per l’appunto, méthode champenoise) prodotto in una zona geografica delimitata della Francia? Una bevanda che rende gli animi euforici e inclini alla gioia? Una soluzione idroalocolica dotata di bollicine di CO2 perfettamente rotonde che salendo in superficie inebriano le nari dei libanti? La locuzione più spesso usata nei privé delle disco più trendy da figli di papà che non hanno idea di cosa stanno per assaporare perché i 5 gin&tonic precedentemente ingollati hanno completamente intorpidito le papille gustative tanto da non permettere più di riconoscere la differenza fra uno Champagne millesimato e una gazzosa alcolica?
Io preferisco pensare allo Champagne come ad un’idea. L’idea dell’uomo che asseconda la natura al fine di estrarne il succo più brillante, l’idea della volontà capace di piegare il banale scorrere del tempo e di ridicolizzare il passare degli anni con una leggera scrollata di spalle. Le idee non muoiono con le persone che le hanno espresse, e non finiscono quando le bottiglie vengono svuotate. Le idee non temono lo scorrere della sabbia nella clessidra e incedono con garbo e con fermezza lungo il cammino delle percezioni. Le idee sono universali, non conoscono barriere linguistiche e culturali, le idee sono scintille di luce in un firmamento terrestre altrimenti buio e desolante
Serate come quella organizzata a Milano per celebrare la storia della maison Charles Heidsieck fanno affiorare alla mia mente pensieri di tal fattura, mi fanno arrovellare sul vero significato delle parole, sul peso a volte troppo lieve, altre troppo greve che siamo soliti associar loro. D’altronde cos’altro ci si potrebbe aspettare quando al termine di un sontuoso cammino degustativo ci si appresta ad assaporare un vino che, mese più mese meno, ha la tua stessa età, ha vissuto i tuoi stessi anni, passando dai sogni degli anni ’80 ancora intrisi dell’afflato idealistico del decennio precedente al realismo spiccio dei ’90, al nuovo millennio in cui il male più grande ha il triste nome di depressione. Quante cose trasmette senza aver bisogno di parlare quell’etichetta consunta, ingiallita dagli anni, ma fiera del proprio lignaggio?
Ma partiamo con ordine. Tutto comincia su di una terrazza di Milano città, uno di quei piccoli gioielli nascosti di cui il capoluogo meneghino è particolarmente geloso, tanto da celarlo dietro ad un portone senza insegna né cartello, perché solo coloro che già sanno possano goderne in silenzio qualora lo desiderino. Siamo da Cavoli a Merenda, proprio di fianco a Santa Maria delle Grazie, e l’istrionico cantastorie Marco Chiesa sta versando nei calici degli estatici astanti il Brut réserve di Charles Heidsieck e raccontando di quando nel 1910 scoppiò anche una guerra civile per lo Champagne, e poi di quando i tedeschi durante l’occupazione della Francia pensarono bene di svuotare le cantine delle maison più famose perché certe cose preziose era meglio preservarle dalla distruzione. L’atmosfera serotina di un giugno milanese improvvisamente viene pervasa da profumi soavi e per qualche minuto ci si può scordare di essere in una metropoli che ormai ha perso la propria anima più vera e pensare di essere in un luogo con uno scopo nel mondo
Ci si siede a tavola e dalla cucina iniziano a susseguirsi abbinamenti ora facili e ora arditi, abbinamenti per contrasto e per affinità. Arriva una parmigiana di melanzane e zucchine, con poco pomodoro, e arrivano paccheri con datterini, taggiasche e ricotta salata. Nei bicchiere viene versato (com’è possibile che un verbo tanto musicale come mescere abbia un participio passato tanto brutto come mesciuto?) oro splendente che riflette la luce e attira l’attenzione anche solo per il rumore che produce il perlage quando frizzica in superficie. È lo Champagne Charles Heidsieck Brut Vintage 2000 che punta sull’eleganza espressiva, risulta essere meno pomposo al naso rispetto al Brut Reserve, meno largo è più profondo, uno Champagne giocato in sottrazione, che punta a far risaltare pochi tratti della propria personalità, ma perfettamente cesellati
I piatti vengono ritirati, i bicchieri svuotati con grande piacere, gli animi si predispongono alla chiacchiera gioviale, le risa sono più sincere e le parole più morbide. Le storie si susseguono, storie di Champagne fermi e di bottiglie che scoppiano e di regnanti che indulgono nei piaceri della carne piuttosto che nei doveri dello stato (e no, non si stava parlando di attualità politica, lo assicuro). Compaiono bottiglie dalle etichette diverse, evanescenti eppur luccicanti, una scritta si fa notare su di esse: Blanc des Millénaires, millésime 1995 vintage. Perché mai “des Millénaires” verrebbe da chiedere ingenuamente, poi accosti il bicchiere (non la flûte, mi raccomando ragazzi a casa ripetete con me, non si usa la flûte con lo Champagne) alle froge e improvvisamente le luci si attenuano così come le voci e si abbraccia appieno il significato di quell’appellativo. È come specchiarsi in una pozza di acqua cristallina in un bosco inspiegabilmente in fiore in una mattina di maggio, è finezza infinita che non ha bisogno di belletti per farsi notare, sono le due gocce di Chanel n°5 per andare a letto, è una vespa dal colore indefinito che attraversa il centro di Roma
Ma come dicevo qualche emozione fa, i pensieri più profondi sorgono quando si gusta lo Champagne Charlie Brut 1985. Qualcuno, quasi trent’anni fa, ebbe la lungimiranza di produrre uno Champagne che durasse indenne negli anni, che stupisse dei milanesi adottivi che stavano fantasticando di colline di marna azzurra in una sera di giugno con il suo perlage ancora presente. Che confondesse per quell’acidità che non voleva cedere il passo, che per quanto gli anni avessero iniziato ad indurire le giunture dimostrava ancora una vitalità che pochi fresconi con al massimo un lustro sulle spalle si sognano di possedere. È uno Champagne capace di far pensare il Charlie 1985, un mezzo più che un fine, un pensiero più che un liquido. Un’idea
Il mio breve racconto giunge alla fine, così come era giunta alla fine la cena. Si salutano gli amici, si ringraziano gli ospiti, si ripongono le bottiglie ormai vuote. Ma le idee, quelle non vanno in cantina
Articolo scritto e redatto da Federico Malgarini | Tutti i diritti sono riservati