Mangiare al ristorante, a mio parere, deve essere un’esperienza completa e totalizzante, qualcosa che va oltre la semplice azione di nutrirsi. Una cena al ristorante deve far sentire coccolati, deve far percepire un’atmosfera calda ed accogliente, deve mettere a proprio agio e predisporre al meglio i commensali ad approcciarsi ai piatti che verranno serviti. Solo in questo modo è poi possibile apprezzare appieno le qualità sensoriali delle ricette proposte dalla cucina. Se l’ambiente invece non facilita tale disposizione d’animo è naturale conseguenza che la cena risulti mediocre e tutto fuorché memorabile
Appena si entra al Don Carlos, ristorante gourmet del Grand Hotel et de Milan di Milano, la sensazione è di intimo calore. Il locale ha come tema di fondo l’opera, Don Carlos è per l’appunto un’opera di Verdi, che viene declinato in svariati aspetti. Le sale sono arredata con curata eleganza, mai eccessiva, mai sfarzosa, di quella finezza che si fa apprezzare sottovoce, senza urlare perché non ce n’è nessun bisogno, perché se ne intuisce la classe a pelle. L’illuminazione, di un giallo particolarmente caldo, aiuta a rafforzare tale piacevole percezione. Il calore è veicolato in primis dall’accoglienza riservata all’ingresso, distinta, ma non distante, che fa sentire subito a proprio agio ed importanti
Con questo stato d’animo si è predisposti al meglio a degustare i piatti preparati con grande cura dalla cucina,gestita dallo chef Angelo Gangemi e per l’occasione in mano a Paolo Pivato, principiando con gli antipasti. Il trittico proposto in apertura parla di grande ricerca della materia prima, di cotture ineccepibili e di una presentazione che, pur non tralasciando la parte visiva, non vuole in nessun modo nascondere la natura di quello che c’è nel piatto. A partire dalla tartare di fassone piemontese che, estrapolata dal contesto, avrebbe fatto un figurone in qualsiasi ristorante gourmet albese sia per presentazione che, soprattutto, per qualità della carne. Passando per lo sformatino di parmigiano con insalata di funghi porcini scottati , un piatto assaggiato negli ultimissimi giorni di preparazione che unisce la morbidezza dello sformatino (assolutamente non banale) alla compattezza profumata dei porcini. Si chiude al mare col polpo arrostito su crema di mais e capperi in fiore, anche in questo caso un bellissimo gioco di consistenze che va ad esaltare il sapore del polpo il quale vanta una croccantezza davvero gradevole
I primi piatti sono, per complessità e struttura, il giusto trait d’union fra gli antipasti e le portate principali. Come in un’opera sinfonica, si passa da un primo movimento introduttivo ad un secondo movimento che riprende accentuando i temi presentati del primo. Il risotto ai porcini con scampi marinati allo zenzero esprime in pieno questo concetto di rafforzare: ottima cottura del riso, porcini presenti e coprotagonisti del piatto, scampi freschissimi e solo leggermente marinati perché il loro sapore non venga nascosto, ma solo esaltato. I ravioli ripieni di burrata con ristretto ai pomodorini di Pachino vanno nella stessa direzione: delicatezza nella sostanza, grande attenzione nelle cotture. Come in ogni sinfonia che si rispetti il secondo movimento aggiunge elementi di novità, in questo caso è la creatività che traspare nei piatti. Ma una creatività che, esattamente come l’ambiente circostante, non è urlata, ma fatta di piccoli tocchi d’artista che vengono posti a personalizzare una ricetta
I secondi sono il movimento principale dell’opera e sono ricette di grande scuola. In rappresentanza della cucina di mare c’è l’ombrina ai sapori del Mediterraneo: cous cous al riccio di mare e salicornia. Per quanto mi riguarda un piatto vincente già per la scelta del pesce, l’ombrina, poco noto, poco utilizzato, ma di sapore ottimo e consistenza unica. Una ricetta che rimanda in tutto e per tutto alla cucina siciliana. Se ne apprezzano i profumi, se ne gustano i sapori, si immagina il mare di mille azzurri diversi della Sicilia, sembra quasi di sentire in sottofondo un leggero vociare di trapanesi intenti a discorrere di pesca, di cucina e di donne. L’ambasciatore della terra è invece l’agnello, ed in particolare il carré in crosta di uva sultanina con salsa al cacao e agretti ajo e ojo. Il carré d’agnello è un piatto che associo idealmente al centro Italia, per quanto venga preparato anche in altre regioni, ad una cultura fondata sulla pastorizia ed intimamente legata alla terra ed alle stagioni. La preparazione con cacao e uva sultanina è un chiaro rimando al dolceforte toscano che in questo caso è abbinato all’agnello e non alla cacciagione. Il turbine di sapori che si sviluppa in bocca è sublime e va a sollecitare tutte le sensazioni gustative, dal dolce dell’uva sultanina al leggero amaro del cacao, al piccante acidulo degli agretti con la sapidità a fare da collante che conduce il palato a scoprire l’agnello poco per volta, in maniera delicata e completa. Un viaggio in ogni boccone
Si cala il sipario con i dolci , anche in questo caso un trittico che è un po’ un viaggio dentro al viaggio. Si parte col raviolo d’ananas marinato con sorbetto al limone e salvia la cui freschezza leggermente balsamica pulisce completamente la bocca e permette di accostarsi al seguito col palato resettato. Quindi il dessert al gianduia: una ricerca delle varie espressioni del gianduia in diverse forme e consistenze. Per giungere alla grandiosità della cheese cake all’uva fragola, un dolce goloso ed elegante non troppo dolce e di grandissima sostanza. Pregevole il fil rouge fra i dolci dato da una leggera sapidità prima nel soufflé al gianduia e poi nel biscotto della cheese cake. Una firma personale che denota grande sicurezza e conoscenza della materia perché è proprio quella nota sapida che aiuta a mangiarne e mangiarne ancora senza sentirsene stanco
Non aggiungo altro se non: grande goduria!
Articolo scritto e redatto da Federico Malgarini | Tutti i diritti sono riservati