Il tessuto vitivinicolo italiano è una rete dalle maglie molto strette. È un velo dalla trama estremamente complessa composta da piccole e piccolissime realtà che coltivano i loro vigneti con cura e dedizione sovrapposta ad un ordito fatto di grandi nomi e cantine sociali che gestiscono centinaia o migliaia di ettari. Gli uni sono complementari agli altri ed ognuno serve all’altro, se tutti si agisce nel rispetto del lavoro degli altri e con lo scopo di fare del bene all’intero territorio e non solo pensando al proprio tornaconto il risultato non può che essere positivo

 

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La realtà viticola alto atesina è, più in piccolo, una perfetta esemplificazione di questo concetto: grandi cantine sociali esportano il  buon nome del vino regionale permettendo ai piccoli nomi che puntano tutto sulla qualità di avere vita più facile all’estero così come in casa. La famiglia Carlotto è una di quelle piccole realtà d’eccellenza che sforna annualmente dei piccoli gioielli contenuti in bottiglie di vetro. Coltiva la vite in quel di Mazzon da decenni, ma è solo nel 2000 che Ferruccio, aiutato dalla figlia Michela, ha deciso di lanciarsi nell’avventura dell’imbottigliamento del proprio vino. Il territorio è quello maggiormente vocato per la coltivazione del Pinot nero che qui acquisisce una finezza ed un’eleganza uniche per l’Italia

 

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In poco più di un decennio il Filari di Carlotto è diventato un punto di riferimento per gli appassionati di questo nobile vitigno che guardano all’Alto Adige, ed in particolare al piccolo costone montagnoso che da Egna sale verso Montagna per poi ridiscendere ad Ora, come ad una Mecca dove ricercare chicche nascoste e rinfrancare lo spirito con veri capisaldi del regale borgognone. Lo stile qui è diverso da quello d’oltralpe,  si trovano meno spezie e meno polpa, a vantaggio di profumi più soavi e corpi più flessuosi. Due interpretazioni diverse dettate dai terreni e dalle condizioni meteo climatiche (il famoso terroir) che differiscono fra la regione montana atesina e quella collinare francese

 

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La produzione dell’azienda Carlotto è estremamente limitata e le bottiglie vanno letteralmente a ruba, quindi la degustazione in cantina si concentra sulle nuove annate, partendo proprio dall’ultimo imbottigliamento del Filari, il 2011. L’affinamento prevede che il 40% riposi circa un anno in botti grandi mentre il restante 60% passi il medesimo tempo in barrique. Questa nuova annata è nata già adulta, rivelando fin da subito un grande equilibrio da vino maturo a partire dall’assorbimento dei sentori di legno, già molto ben amalgamati, e dalla compostezza del naso che rivela piccoli frutti di bosco molto fini ed una sottile speziatura delicata di pepe che solletica l’immaginazione. La chiusura dell’assaggio regala una sensazione piacevolmente dolce che non è zucchero, ma morbidezza del vino, maturità dell’uva. Un vino con un radioso divenire di fronte a sé

 

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Ma Carlotto non è solo Pinot nero, infatti una parte importante della produzione dell’azienda è dedicata ai autoctoni regionali: Schiava e Lagrein. La prima, assaggiata l’annata 2012,  è un vino fresco e floreale, le cui uve vengono coltivate a Mazzon. Dal corpo esile e dalla beva prepotente è il classico vino da bere in compagnia di una bella tavolata, mette allegria in chi lo beve. Il Lagrein 2010 è un signor vino. Affinato esclusivamente in botte grande, questo Lagrein è quasi sfacciato per il modo che ha di imporsi al naso,  mostra subito senza veli tutta la sua materia, concentrata nel colore fitto ed impenetrabile e nei profumi semplici ma non scontati. L’assaggio regala tanta sostanza, tantissima polpa che sembra quasi di avvertire fra lingua e palato. La chiusura è leggermente vegetale e rivela un tannino di classe che regalerà grandi soddisfazioni nell’invecchiamento. Un vino bello, punto

 

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Passare a Mazzon apre gli occhi sulle grandi potenzialità del Pinot nero in Italia, visitare Carlotto per credere

Il Fede

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Articolo scritto e redatto da Federico Malgarini | Tutti i diritti sono riservati