Ieri Christian Dior, oggi Dior: a settant’anni dalla fondazione della maison Parigi celebra il sogno e “Couturier du rêve” è il titolo azzeccatissimo della mostra a lui dedicata fino al 7 gennaio prossimo nelle sale del Musée des Arts Décoratifs.
Chi scrive racconta personalmente l’emozione frastornante di esserci stato, di essere stato parte di un Diorama consegnato alle future legioni di sognatori che, in un percorso apostolico, saranno capaci di eternare un’eredità pregnante ma mai uguale a sé stessa, così come è accaduto a chi Christian l’ha poi seguito, da Yves Saint Laurent a Gianfranco Ferrè, da John Galliano a Maria Grazia Chiuri, unica donna finora a essere divenuta sacerdotessa di Dior.
Christian, bambino normanno ma poco “vichingo”, lo incontro dapprima a Granville, cittadina deliziosa e fornace di uno spirito che non poteva che titaneggiare: nei giardini strappati alla rude natura e alla forze di quelle onde che solo la Normandia può rendere così fiere, egli crebbe e si ispirò ai fiori che sua madre Madeleine aveva voluto nascessero in quell’inospitale angolo del globo, in primis la rosa; tra le sorelle scelse la dolce ègida di Catherine, l’unica a lui prossima spiritualmente, musa poi per un suo profumo, “Miss Dior”. Parigi, tappa conclusiva di un on-the-road normanno-bretone, mi regala la possibilità di assistere allo sfavillio sognante di 300 abiti contestualizzati per valore intrinseco.
Sotto i raggi del sole “lumière” si affollano persone diverse ma tutte accomunate da un unico desiderio: sognare; la fila si allunga col passare delle ore, ma sarò uno dei primi insieme a due adorabili signore parigine che mi hanno preso a ben volere e chiacchierano come se ci conoscessimo da tempo. Alle 11:00 vengono aperti i battenti e, dopo aver pagato il biglietto, siamo tutti rapiti da quest’aria solenne e intima nel contempo che non allontana e invita a gustare la seduzione, come solo un grande poteva fare!
Benché il percorso sia organizzato per sezioni, la percezione dello spettatore è quella di un tragitto unitario, iniziatico che racconta dapprima degli esordi, e nelle foto stinte di un’epoca conclusa facilmente si riconosce lo sguardo malinconico e lungimirante di un giovane Christian, prima bambino, poi adolescente ma sempre in secondo piano, in un contesto in cui sognare di vivere d’arte relegava socialmente: Dior lascia Granville per Parigi e diventa artista e collezionista d’arte in una misteriosa ascesa fino a diventare il Sarto dei sogni.
Addentrandosi negli spazi espositivi, si penetra un atrio sibillino sempre meno buio perché se ne sono acquisiti i caratteri identificatori ed è così che si dipana un color-block prezioso, variopinto nelle cui vetrine convivono modelli di ieri e bozzetti di oggi, spille, amuleti (Dior era particolarmente superstizioso! n.d.r.), boccette di profumo che sono vere opere d’arte. Non c’è pausa, non c’è sospiro in questo lungo cammino, serpentino, non ritorto che conduce gli avventori e li ammalia, li strabilia, li stordisce allorché salici piangenti ritagliati nella carta ombreggiano vestiti che continuamente si richiamano perché la curatrice della mostra ha lavorato per assonanze, e gli abiti floreali di monsieur sussurrano a quelli fatti fiorire negli ultimi anni da chi ne ha accolto l’eredità, tutti quei stilisti cui è dedicata una sezione antologica.
Echi sfavillanti di cristalli, dolci zefiri di seta e chiffon invitano a proseguire il viaggio e scendere le scale per contemplare il sogno “fatto carne”: il bar tailleur primeggia silenzioso in una teca, immobile reliquia da cui tutto questo spettacolo ha avuto origine perchè nel 1947 Dior crea il New Look e veste le donne in maniera lieve e rispettosa lasciando loro la libertà di unirsi al nuovo corso della Storia dopo i fatti bellici.
Non c’è pausa, non c’è sospiro in questo viaggio e più si conosce più si anela di conoscere fino all’estatica adorazione delle mani dei sarti lì presenti che, nei loro camici logati (essi stessi oggetto del desiderio dei fashionisti), intersecano fili sottili, sovrappongono paillettes microscopiche, ritagliano pezzi anonimi di stoffa per imbastire modelli e ordire la trama di quella couture riconoscibile, seducente, accessibile a pochi e perciò ancora più desiderabile.
La contemplazione estatica della manualità, la vista di abiti appena abbozzati, il ricordo di quanto ammirato, la celebrazione dei fasti di Versailles abbagliano, stordiscono e, all’uscita, ritrovo volti ormai trasfigurati, esterrefatti da tanta Bellezza: siamo sempre le stesse persone ma consapevoli che i sogni possono diventare realtà e lo sguardo fende il terso cielo parigino a ringraziare colui che lo ha reso possibile. Merci monsieur!
Articolo scritto e redatto da Ciro Sabatino| Tutti i diritti sono riservati
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