Quello che mi piace dei classici è che se ne può discutere senza troppa paura di “svelare chi è l’assassino”. Più o meno la trama la si conosce se non per merito di un insegnante almeno per via dei film che ne sono stati tratti
La ragione di questa introduzione è che questo post più che una recensione è una riflessione sull’ultimo libro che ho letto, Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, pubblicato nel 1962. Questo è il libro che ho scelto di portare con me in vacanza perché da tempo desideravo leggerlo ma non si era mai presentata l’occasione. Si è trattata per la verità di una scelta non molto azzeccata, un po’ per il tema non proprio da lettura sotto l’ombrellone – la storia infatti si svolge negli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale, precisamente tra il ‘38 e il ‘43, e inizia con l’introduzione delle leggi razziali – un po’ perché i ritmi estivi non mi hanno permesso di dedicare a questo romanzo l’attenzione che richiedeva. Per tutti questi motivi la mia lettura è proseguita fino a poche pagine dalla fine piacevolmente ma senza grandi emozioni. Delle 214 pagine di cui si compone l’edizione della collana Universale Economica Feltrinelli, diciamo che ne ho lette 200 continuando a chiedermi quand’è che si sarebbe entrati nel vivo dell’azione. Attraverso un flashback, viene racconta la storia della famiglia Finzi-Contini, ebrei appartenenti all’alta borghesia ferrarese, e del legame che si era creato tra i sui membri e il protagonista nel corso degli anni, in particolar modo con i figli, Alberto e Micòl. Il protagonista e voce narrante della storia, di cui nel romanzo non verrà mai svelato il nome, conosce i due ragazzi fin da bambino ma è solo qualche anno più tardi, quando le leggi razziali causeranno l’esclusione degli ebrei da molte attività pubbliche che cominceranno a frequentarsi giocando a tennis nel giardino dei Finzi-Contini, teatro principale della narrazione. E’ qui, nel giardino, che nasce e si rafforza l’affetto del protagonista per i Finzi-Contini. Un affetto continuamente ribadito nel libro ma che sembra sempre essere pervaso da un certo distacco e diffidenza. Persino i sentimenti che nascono tra il protagonista e Micòl non si trasformeranno mai in una storia d’amore. Lui verrà respinto e il perché rimarrà sempre vago, affidato alle sue pure supposizioni. Da qui la mia perplessità: perché uno scrittore dovrebbe voler raccontare una storia incompiuta, un qualcosa che di fatto non accade… La narrazione è sicuramente lo specchio di quel senso di incertezza e di isolamento che le leggi razziali stavano rapidamente insinuando nella società, e questo è palese in tutto il libro, ma sono le ultime quattro righe – che non riporto per non togliervi il piacere di leggerle – che danno senso a tutta la storia. In questo romanzo non succede niente di romanzesco perché in genere è questo che succede nella realtà. Bassani, secondo me, ha raccontato la storia normale e probabilmente autobiografica, di persone normali che lui ha amato non per quello che hanno fatto ma semplicemente perché sono state presenti nella sua vita. Bassani scrive il Giardino dei Finzi-Contini per sottrarre i protagonisti e Micòl in particolare, almeno nella memoria, alla follia dei campi di concentramento e all’oblio, prefiggendosi – e a mio parere raggiungendo pienamente – l’obiettivo più alto cui uno scrittore e un libro possano aspirare. Se lo avete letto mi piacerebbe sapere cosa ne pensate!