“Ma no. Non è Felix! E’ Oswald!”
Sulla spiaggia di Kamakura le due ragazze ridono della mia ignoranza dell’universo Disney. Sono arrivato a questa spiaggia attirato dalla vista del mare, nella speranza di trovare un po’ di sollievo al caldo soffocante delle strade della vecchia ex capitale. Giugno può essere veramente caldo in Giappone anche se non sono rari improvvisi rovesci di pioggia che ti lasciano bagnato come un pulcino prima che tu abbia avuto il tempo di aprire l’ombrello o cercare un riparo.
La giornata è iniziata con una sveglia di buon’ora e una colazione in stile giapponese nell’hotel di Tokio nel quale alloggio, la destinazione di oggi è la città di Kamakura. Situata a sud-ovest di Tokio, la cittadina è facilmente raggiungibile dal centro della capitale per mezzo della linea ferroviaria IR Yokosuka, passando per Yokohama.
Il viaggio in treno è comodo e veloce e la fama della stupefacente puntualità per la quale i trasporti giapponesi sono famosi nel mondo è giustamente meritata. I pendolari che occupano la carrozza sono silenziosi e persi nei display del loro telefonini: solo la voce dell’altoparlante che annuncia le fermate rompe il silenzio. Scendo a Kita-Kamakura, la stazione che precede quella vera e propria di Kamakura. Motivo di tale scelta è il desiderio di visitare l’ Engaku-ji, uno dei maggiori templi buddisti della zona. Uscito dalla stazione seguo le chiare indicazioni per raggiungere il luogo sacro: il posto è già affollato da numerose scolaresche arrivate in gita. Scoprirò più tardi che tanti di questi studenti arrivano dalla regione di Saitama, a nord di Tokio. Il complesso è imponente. L’Engaku-ji è formato da diversi edifici di varia grandezza tutti collegati fra loro da viali ed immersi nel verde di alberi e piante di vario genere. Nonostante sia stato fondato nel 1282, il tempio non dimostra affatto la sua età: ciò è dovuto al modo particolare con il quale in Giappone vengono restaurati gli edifici storici. Per secoli il legno è stata la materia prima privilegiata per la costruzione degli edifici sacri e civili ma la sua facile deperibilità nel tempo, unita all’instabilità geologica del paese, ha fatto sì che templi, santuari ed abitazioni venissero periodicamente demoliti per essere poi ricostruiti tali e quali, nello stesso identico posto. L’antichità, in Giappone, non è altro che un’idea.
Percorro i viali del complesso visitandone i vari edifici. I giardinieri, con i loro caratteristici abiti da lavoro, curano le aiuole: alla mia sinistra un gruppo di ufficiali dall’uniforme candida arriva marciando, si ferma e con un rapido giro sui tacchi si schiera di fronte ad un piccolo tempio. Uno monaco solleva la corda che ne delimita l’ingresso, gli ufficiali varcano la soglia in fila, la fune viene riabbassata.
Ripasso mentalmente il percorso che ha studiato in treno e trovo facilmente il sentiero che s’inerpica per il piccolo cimitero. Come tantissimi altri in Giappone, anche questo cimitero è composto da parallelepipedi in pietra di diverse misure che li fanno assomigliare allo skyline di una moderna metropoli in miniatura. La mancanza di fotografie e i caratteri misteriosi impressi nella pietra non costituiscono un problema perché la tomba che sto cercando l’ho bene impressa nella mia memoria e quando finalmente la vedo la riconosco subito. Sono arrivato qui rendere omaggio a Ozu Yasujiro. Per molti uno dei maggiori registi di ogni tempo, per me è semplicemente il più grande. Bottiglie di sake e di birra sono posate sulla pietra, nessuna iscrizione su di essa ma solo l’ideogramma cinese di “mu”, il “vuoto”, il “nulla”. Sono finalmente dove volevo essere.
Lascio l’Engaku-ji con un senso di pace nel cuore.
Visito il tempio zen di Jochi-ji e il complesso di Kencho-ji, il più antico tempio zen e del Giappone, poi di nuovo in treno e arrivo a Kamakura. Anche qui tante scolaresche e anche qui, come prima a Kita-Kamakura ci si mette in posa per la foto di gruppo con i ragazzini incuriositi dalle mie fattezze occidentali: “Italia? ooohhh, Sugoi!”
È il commento che sentirò più spesso durante la mia permanenza in Giappone. Kamakura è affascinante. Kamakura è frustrante. Oltre 70 templi ne punteggiano la superficie e vederli tutti è impossibile, bisogna quindi fare una scelta e cercare i più notevoli. Si comincia allora dal Tsurugaoka Hachimanu-gu. Subito la sgargiante torre rossa mi informa che sono al cospetto di un santuario shintoista. Da qui si gode una bellissima vista sulla baia.
Percorro Komachi Dori. Via pedonale ricca di negozi di souvenir e ristoranti, ottima per lo shopping o uno spuntino se questo genere di cose può interessarvi. A Kamakura bisogna avere buone gambe ma la fatica viene ripagata: tra le colline sorge lo Zeniarai Benten, il santuario dove, in una grotta, messi soldi in un cestino di bambù, lo si immerge nell’acqua e i soldi si raddoppiano. Bisogna avere fede affinché il miracolo si avveri ma la lettura di Pinocchio ha ormai irrimediabilmente incrinato la mia fede in campi, fonti, miracoli e così, non più ricco non più povero di prima, prosegue nel mio giro della città. Le cose da vedere sono tante, belle e meno belle, notevoli o modeste, qui segnalo soltanto l’Hokoku-Ji per il suo bel giardino di bambù e il tempio di Hese Dera, famoso per la grande statua della dea Kannon scolpita nell’ ottavo secolo in un unico tronco di 9 metri
Ma il simbolo di Kamakura, quello che tutto il mondo conosce, è il Daibutsu, la statua bronzea del grande Budda. Conoscere la Sua altezza (11 metri) e il suo peso (121 tonnellate) non prepara allo spettacolo della sua imponenza. Dal suo piedistallo di pietra di Daibutsu osserva con distacco il mare di turisti che si muove sui piedi. Al suo cospetto ci si sente minuscoli. Una stretta scalinata porta al suo interno, il metallo, reso caldo dal sole, rende l’ambiente claustrofobico e soffocante ma non sento quasi il disagio perché finalmente ho realizzato il desiderio che mi ha accompagnato sin da quando, bambino, vedi la foto del grande Budda in un libro sulle bellezze del mondo. “Da grande voglio entrare nella statua di Budda” annunciai a me stesso.
La giornata è stata stancante, kilometri di strade a piedi e sole cocente: vedo un cartello che indica la spiaggia, non è neppure così lontana. Nella guida è scritto che non è particolarmente interessante e già questo per me costituisce un buon motivo per recarmici: le guide devono servire a questo punto a evitare di farti arrivare in un posto dove tutti i presenti hanno la stessa guida fra le mani. Arrivo al limitare della spiaggia, un cartello spiega il comportamento da tenere in caso di tsunami. Il giorno prima deve aver piovuto, la sabbia in alcuni punti è umida: piccoli rivoli di acqua l’attraversano sfociando nel mare. Un cantiere brulica di operai al lavoro, alcune barche in secca e pescatori che lanciano le loro esche fra i flutti. Uno spettacolo desolante. Lui e lei passeggiano insieme verso il bagnasciuga parlando piano. Sono giovani, lei scrolla via la sabbia delle scarpe, poi guardano il mare in silenzio. Alcuni gruppi di ragazzi, poche famiglie e, più in là, due ragazze che si fotografano la vicenda, con i piedi scalzi nell’acqua bassa e una lattina in mano. Faccia loro un cenno, capiscono e si mettono in posa per la foto. Passiamo il tempo seduti insieme sulla sabbia chiacchierare del più e del meno. Si parla del Giappone, dell’Italia. Lavorano presso Tokio Disneyland e mi mostrano l’immagine del loro personaggio preferito sullo schermo di uno smartphone: vedo delle macchie nere, delle cose che potrebbero essere delle grandi orecchie (il riflesso del sole sul display non aiuta), “È Felix!” Esclamò. Naturalmente mi sbaglio.
È rilassante stare seduti così, senza pensare a nulla, e la stanchezza comincia a diminuire ma al pensiero della strada da percorrere per tornare indietro mi scoraggia. Come tanti giovani giapponesi anche le due ragazze sembrano avere una grande carica di energia all’interno e lo dico loro. Quella dai capelli lunghi prende la mia mano e la posa sul suo colpaccio “sono una ballerina di hip-hop, sentì che muscoli”
Scritto e redatto da Maurizio Cavallo | Tutti i diritti sono a lui riservati