Perché corriamo? Cosa ci spinge a metterci le scarpe, indossare il k-way e sfidare i peggiori acquazzoni, la natura più avversa, per andare a macinare i nostri chilometri quotidiani quando potremmo restarcene al calduccio in casa? Penso che ognuno abbia il proprio motore motivazionale primario, ma che quella sensazione di benessere che si irradia in tutto il corpo e contagia anche la mente dopo aver terminato l’allenamento, quella scarica di endorfine che ci fa sentire immotivatamente euforici e piacevolmente a nostro agio sia un fattore stimolante condiviso
Come ho detto in precedenza il mio rapporto con la corsa è intenso e discontinuo, fatto di focosi innamoramenti e periodi di fredda indifferenza. Quello che mi serve per riprendere a calcare il duro asfalto è un obiettivo, uno stimolo sfidante quanto possibile, ma oggettivamente raggiungibile. Il progetto cityrunners creato da Adidas è stato inizialmente proprio questo: pormi un obiettivo sfidante, applicarmi per raggiungerlo, pianificare l’allenamento sfruttando ogni possibile momento libero (bene ormai sempre più raro) e cercare per quanto nelle mie capacità di superarlo. L’obiettivo ufficiale del progetto era di portare 42 persone scelte fra veri runner e comunicatori del mondo 2.0 a correre la Milano City Marathon, chi sull’intera distanza dei 42,195 chilometri, chi scegliendo la propria frazione della staffetta che suddivide la lunghezza principe del podismo in quattro scaglioni successivi. Pensavo di scrivere un solo post finale, ma vista la mole di parole che mi sono uscite di getto ripensando a quest’esperienza sono costretto a spezzare l’articolo in due puntate. Oggi parlerò della Stramilano
Preparare seriamente una maratona non è un giochetto da ragazzi. Le tabelle professionali che portano l’atleta a cimentarsi in maniera ragionata alla sfida più impegnativa durano dai 4 ai 6 mesi e prevedono ritmi di allenamento serrati tali da formare il fisico, ma soprattutto la volontà, del corridore in vista della gara finale. Avendo a disposizione circa due mesi e mezzo ho quindi deciso di propendere per la tappa precedente: la mezza maratona. Non ne avevo mai corsa una, anche negli anni passati mi ero sempre arrestate a qualche passo di distanza, iniziando a fare qualche garetta di paese sui 15/17 chilometri, ma senza mai fare l’ultimo step. A questo giro non mi sarei mai permesso di mancare l’obiettivo, quindi dal giorno dopo il primo incontro dei cityrunners avvenuto all’inizio di gennaio ho iniziato a pianificare l’avvicinamento al D-day dei miei primi 21 chilometri
Sono stati mesi impegnativi, serate in cui arrivi a casa tardi dopo giornate intense di lavoro e il richiamo del divano è più intenso di qualsiasi omerica sirena e noi, novelli Ulisse lo abbiamo scansato con un’alzata di spalle per uscire con la nostra nuova compagna, la corsa. Mattine con sveglie assurde perché magari tutta la settimana non c’era una sera libera per allenarsi e non si poteva perdere il ritmo, perché magari la gara si stava avvicinando e non ci si poteva permettere la minima sbavatura. Sabati di sole passati lungo il naviglio a rincorrere una distanza, un ritmo, un tempo che in settimana ci parevano ancora irraggiungibili e che col tiepido sole della primavera lombarda si sono invece rivelati a portata di mano
Arriva quindi il fatidico giorno della mezza maratona. Le previsioni danno diluvio universale su tutto il weekend della Stramilano, ma io me ne strafrego e mi presento alla partenza in maglietta e pantaloncini e tanto ottimismo (che testa di banana che sono). I minuti prima della partenza sono i più difficili, si ripensa ai tempi da fare, ai passaggi intermedi, ci si immagina lungo il percorso e intanto la tensione nei muscoli sale. Per fortuna condivido questi attimi col buon Cristiano Girola, altro cityrunner e autentico campione nell’allentare la tensione in vista della gara (tra l’altro scrive molto bene, andate a leggere il suo resoconto). Entro nei cancelli di partenza, la folla è importante, si parla di oltre 6.000 iscritti, e la sensazione di essere pressati lì in mezzo non è propriamente piacevole. Il cannone spara. La gente intorno a me inizia a correre, direi che è ora di darci dentro.
I primi chilometri sono un calvario, li si passa a fare slalom in mezzo alla folla vociante di corridori che si guardano intorno con aria sperduta. Si perde tempo, un sacco, e si perdono altrettante energie. È solo col primo giro di boa in fondo a corso Sempione che si inizia a respirare più liberamente. Quando in vista del quarto chilometro riesco a superare i segna passo dell’ora e 40 (in queste gare ci sono dei sant’uomini con palloncini legati ai polsi che tengono un’andatura costante per aiutare i corridori) ricomincio a respirare più liberamente. E qui però inizio a pensare. Quanta energia avrò sprecato nello slalom iniziale? Quanto dovrò accelerare per recuperare il tempo perduto? E se poi arrivo all’ultimo terzo di gara troppo stanco come faccio? È in questi momenti che l’allenamento fa la differenza, perché a un certo punto zittisci il cervello, spingi sulle gambe e mandi a quel paese tutte le pippe mentali. Allora trovi il tuo ritmo e inizi a stare veramente bene. Io ho scoperto in quest’occasione di essere un animale da gara. Quando indosso il pettorale numerato riesco a fare dei tempi che in allenamento non vedevo neanche col binocolo. La corsa è una costante sfida con sé stessi, durante le gare in realtà non si corre contro gli altri, ma piuttosto con gli altri contro i propri limiti. Gli altri corridori ci aiutano, ci danno un riferimento e ogni tanto ci spronano ad andare avanti quando ci vedono in difficoltà
Difficoltà che arrivano sempre. Il mio momento critico è stato intorno al quindicesimo chilometro, lungo via Washington. Iniziavo ad arrivare in quell’area sconosciuta in cui non ero certo delle reazioni del mio fisico, contro un vento che sferzava con inaspettato vigore e con le gambe che iniziavano a risentire della fatica. Lì o molli o stringi i denti e non gliela dai vinta a quella canaglia del tuo corpo che cerca di sabotarti. E lì entrano in gioco gli altri corridori, diventa fondamentale scegliere il treno giusto e non mollarlo neanche per un passo, stargli a due metri di distanza e ritrovare la propria continuità. Poi vedi il cartello dei 19 chilometri a metà di corso Sempione (è la quarta volta che lo percorri) e inizi a realizzare di essere davvero vicino all’obiettivo. Quando passi quello dei 20 tutta la stanchezza sparisce e ti sembra di tornar a correre come il primo quarto d’ora. Quando entri in arena ci piazzi pure lo scatto finale per arrivare prima di quello che ti precede e ti senti un figo da paura quando lo svernici sul traguardo
Il mio obiettivo dichiarato era stare sotto l’ora e 35 minuti, che come prima prestazione ad una mezza maratona non sarebbe stato niente male. Sulla base dei tempi di allenamento, del mio stato fisico e delle condizioni del meteo che alla fine si sono rivelate ottimali con tanto di sole che ha fatto anche capolino dietro le nubi, mi ero posto un obiettivo personale di 1:32:30. Come dicevo prima, in realtà sono un animale da gara, è solo durante la competizione che riesco a tirare fuori il meglio di me, senza guardare il cronometro, correndo solamente a sensazione perché preferisco così. All’arrivo guardo in alto il tabellone del tempo ufficiale e inizio a gioire, già così sono certamente sotto al mio obiettivo. Dopo un’oretta arriva il messaggio col rilevamento ufficiale, 1:30:36, a meno di 40 secondi dal muro dell’ora e mezza (tutti persi nei primi due chilometri scoprirò dopo). Il sole è caldo ora, il vento ritorna ad essere amico e io sono felice e soddisfatto, so di avere dato il massimo e di aver superato le mie aspettative. Perché la corsa è questo, impegnarsi duramente nell’allenamento e raccogliere i frutti in gara ed essere felici (soprattutto questo)
E qui ci sta bene un: ma che figata!
Alla prossima puntata con il racconto della staffetta
Articolo scritto e redatto da Federico Malgarini | Tutti i diritti sono riservati