Ieri ho incontrato l’ennesima donna che conosco che, fra una chiacchiera e l’altra, tra un abbraccio ed un saluto mi ha raccontato di essersi separata del marito. Me ne ha parlato in termini dispregiativi, chiamandolo quello lì, senza neanche un nome come se non avesse una identità, come se non fosse esistito davvero come persona.
Mi ha lasciato un velo di tristezza ed una sensazione di sconforto addosso, come se avessi ricevuto una secchiata di polvere pesante sulle spalle. Mi spiace per la sua storia d’amore finita male, ma non posso sapere perché si sono separati davvero, quanto rancore hanno accumulato o quante sofferenze si sono inflitti. Posso solo percepire su di me questa sensazione di grigio, di pesantezza e di lacrime agli occhi.
Perché le storie finiscono, si sa. L’amore e l’innamoramento sono due giochi strani della vita, che ci posizionano, inaspettatamente, su una veloce montagna russa, che ci fanno vorticare velocemente nel cielo, facendoci cambiare prospettiva e panorama. È un oscillio costante fra la felicità e l’infelicità che bisogna imparare a gestire, bisogna imparare a lasciar andare e trattenere allo stesso tempo, respirare a pieni polmoni e buttarsi fidandosi dell’altro. Quando poi entrano sul palco i figli tutto diventa ancora più complesso, perché l’equilibrio deve essere ridimensionato, perché il nostro io va riposizionato, perché la nostra storia deve necessariamente essere portata ad un gradino differente, anche solo per percepire la differenza numerica.
Sono tornata a casa e, varcata la soglia, ho pianto. Non ho pianto di tristezza, perché non mi rivedo in lei, né tantomeno nella situazione che sta vivendo, ma ho pianto di gratitudine per quello che ho.
Quante volte varcando la soglia di casa diamo per scontato di trovare al suo interno, tutto ciò che nel nostro immaginario è presente. Ma di scontato, quando si parla di amore, non c’è nulla. L’amore è una continua costruzione, un continuo confronto, un continuo impegno l’uno verso l’altro. Certo, amarsi ed essere attratti dall’altra persona rende tutto più semplice, ma la bellezza sfiorisce, lo stress fa la sua comparsa, il lavoro torna a casa con noi più spesso di quello che noi desidereremmo. È lì che bisogna rimboccarsi le maniche e decidere di rimanere uniti.
Fare parte di una squadra è un desiderio condiviso, ma quanti di noi sono davvero capaci di fare squadra? Di mettersi da un lato quando l’altra persona ha bisogno di spazio, di essere al suo fianco quando necessita di essere preso per mano? Quanti di noi riescono a mettere le priorità dell’altro davanti alle proprie e comprendere che ci sono diversi momenti della vita? Quanti di noi sono davvero disposti a sacrificare la propria individualità per venire incontro a quella del partner? Quante persone hanno voglia e pazienza per analizzare rapporti, per mettersi in discussione, per affrontare conversazioni che possono aprire ferite ma che aiutano a crescere? Quanti di noi ce la fanno davvero? Pochi. Pochissimi.
Non penso che chi resta insieme sia più bravo di chi si lascia, perché rimanere insieme, a volte, è una non-decisione, a volte, è una decisione a senso unico. Penso semplicemente che sono grata per quello che ho, ma sono anche consapevole che quello che ho, ogni giorno, è il risultato dell’impegno di due persone che si amano, ma non solo. È il risultato di due persone che si rispettano, si ascoltano, si confrontano, si parlano. Che si dicono anche le cose che non vorrebbero ascoltare, e che ascoltano anche quando vorrebbero mollare il colpo.
Non siamo più bravi degli altri e non so se riusciremo a portare avanti quello che stiamo facendo adesso, per tutta la vita, come ci siamo promessi quando ci siamo sposati. So solo che, qualunque cosa succeda, sapremo di avercela messa tutta e di aver fatto squadra, davvero.