Luce. Concetto così semplice da sperimentare, eppure così complesso, figlio di una duplice natura corpuscolare ed ondulatoria. Campo di scontro di teorie fisiche e scuole pittoriche, ragione e sentimento, scienza ed arte, riflessività ed impeto. Luce è colore. Cangiante, vivido, splendente, sfumato. Luce è calore. Sulla pelle, sul viso, sulla terra che calpestiamo. Luce è profumo che pervade l’aere nel meriggio autunnale.
Pochi posti trasmettono in maniera così potente e viscerale la nozione di luce come la Sicilia. In particolare quella parte di Sicilia più estroflessa verso la Tunisia, tesa in doloroso spasmo verso occidente, verso il calar del Sole, là dove la luce si fa più calda e suadente e languida. Scorrere la provinciale 21 che connette Marsala e Trapani, città eternamente rivali e dalle alterne fortune, oppure la provinciale 16 (che poi diventa 18 ed ancora 20) che da San Vito Lo Capo riconduce verso il capoluogo, rende pallida qualsiasi retrospettiva sul concetto di luce nell’arte. Qui la luce è gialla nel pomeriggio, di quel giallo carico e carnoso, sensuale che trasmette una sensazione fisica di morbidezza vellutata. È bianca al mattino, ma un bianco panna, fluido, mai freddo né asettico, perché questo la Sicilia non può esserlo
La Sicilia è terra in cui non esistono il bianco ed il nero. È terra di infinite tonalità di grigio, innumerevoli, mai uguali a sé stesse e mai assolute, sempre pronte a cambiare gradazione, ma rimanendo sempre ferme, nell’eterno annacarsi proprio di questa regione. I reggenti cambiano, ma i siciliani restano sempre uguali, spostandosi e modellandosi quel tanto che basta ad assumere una forma più congeniale alla situazione contingente, ma senza mai modificare la propria natura, immota e ribollente da secoli, figlia dell’Etna e del sale e della sabbia. Nella Sicilia occidentale, a Marsala, la luce viene celebrata nell’uso del tufo, pietra che è stata cavata per millenni a Favignana, incredibilmente friabile eppure resistente. Quando viene colpito dal sole il tufo di Marsala sembra quasi assorbirne la luce all’interno dei pori e continuare ad irradiarla lentamente nel tempo, anche quando il tramonto ha posto fine alle quotidiane fatiche dell’astro
A Marsala le linee di fuga indicano verso l’alto, verso quel cielo maledetto nei fortunali del destino e benedetto nelle giornate di sole mite primaverile. I tetti difficilmente sono dritti, l’orizzontalità essendo spezzata da merli, sbalzi e spioventi. L’unica linea orizzontale è quella che cerca testardamente di dividere il cielo dal mare, illudendosi con un lieve cambio di azzurra tonalità di aver compiuto il proprio lavoro. Guardando in alto quasi da ogni punto di Marsala è possibile vedere almeno una delle cupole che ornano le chiese della città, architettoniche rotondità che rafforzano il concetto di materna fecondità dell’isola, sacralità pagana giustapposta a monumenti di fede cristiana in eterno ossimoro
La pace, quella profonda e vera, la si trova spingendosi al di fuori della città verso il mare e le saline che ne biancheggiano il litorale. Mulini dalle pale stanche spezzano lo sconfinato orizzonte su cui è il sole a svolgere il lavoro, asciugando con i propri caldi raggi l’acqua nelle vasche comunicanti fino a denudarne l’eburneo scheletro salino. I cumuli del prezioso minerale languiscono coperti da tetti di tegole, mollemente adagiati lungo la linea di costa come morenti tartarughe in attesa del colpo di grazia. Placido sole ne carezza i carapace di terracotta mentre la brezza del mediterraneo porta alle nari dei fortunati viandanti il profumo del sale
Sole che bagna la pelle, profumi di Sicilia scaldano l’aria, mentre gli occhi annegano nei colori di Marsala
Articolo scritto e redatto da Federico Malgarini | Tutti i diritti sono riservati